Con appassionata caparbietà e con spirito filantropico, Venceslao Di Persio, costruttore affermato e la moglie Rosanna Pallotta, illuminato medico e docente universitario, hanno dato vita nel settembre del 2021 a un progetto culturale che possiamo definire grandioso. Nella natia Pescara, in un’elegante palazzina liberty in viale D’Annunzio, già sede della Banca d’Italia, ci offrono il loro Museo dell’Ottocento. Una struttura che accoglie la collezione, frutto della condivisione della passione per la pittura italiana e francese nonché per la scultura del XIX secolo. Tale progetto, proiezione della comune sensibilità e dell’armoniosa concordanza dei due coniugi su scelte, gusti e indirizzi, è divenuto sempre più ambizioso e da due anni, grazie anche alla gestione della Fondazione Di Persio-Pallotta viene offerto al pubblico.
Quando è sorta l’idea di dare vita al museo? Per meglio dire, quale ragione vi ha spinto a trasferire la raccolta da un ambito familiare e domestico a una dimensione pubblica?
L’idea è nata nel momento stesso in cui abbiamo cominciato a collezionare opere d’arte. Non le abbiamo mai ritenute soltanto di nostra proprietà: appartengono alla storia dell’arte, quindi a tutti noi. Noi le custodiamo temporaneamente, curandole al meglio, anche da un punto di vista conservativo, e dando loro una casa. E la casa migliore che si possa dare a un’opera d’arte è certamente un museo.
La vostra collezione, costituita da oltre 260 opere e suddivisa in tre piani, è allestita in 15 sale espositive a cui sono collegate una sala studio, una biblioteca, una sala conferenze e la foresteria. Quali criteri avete adottato per l’elaborazione del progetto di allestimento?
Il criterio principale è stato quello della ricerca di armonia. Le cornici, gli arredi, i colori delle pareti e le luci dialogano con i dipinti senza che mai uno prevalga sull’altro, facilitando così il contatto tra il visitatore e l’opera d’arte. Un altro aspetto importante è quello della dimensione domestica: abbiamo voluto ricreare un’atmosfera intima e familiare, che metta a proprio agio ogni visitatore e lo faccia sentire come a casa. Del resto, le opere d’arte esposte nel museo vengono tutte dalla nostra casa.
Voi documentate con grande respiro la complessità della pittura meridionale dell’Ottocento a partire dagli esponenti del vedutismo internazionale sino al dialogo intercorso tra i pittori italiani e francesi con un focus specifico sui protagonisti dell’École di Barbizon come Courbet, Rousseau, Daubigny e Troyon. Per quale motivo questo specifico filone della pittura dell’Ottocento vi ha particolarmente appassionato?
Le connessioni tra la pittura italiana e quella francese sono, nell’Ottocento, ben più profonde di quanto si possa pensare. Lo sottolineano gli studi recenti, ma rimane un terreno ancora tutto da indagare. La Francia, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, è stata un punto di riferimento imprescindibile per i nostri artisti, in particolare per i paesaggisti, ma anche per la pittura di figura. La spinta innovativa di artisti come quelli da lei citati è stata immediatamente colta da personalità di primo piano quali Filippo Palizzi e Domenico Morelli, solo per menzionare due dei più importanti, i quali si impegnarono a diffonderla in Italia con un’interpretazione personale, mediterranea. Un fenomeno, questo, che ha influito profondamente anche sulle generazioni successive.
Ci sono prestiti dalla vostra collezione anche nella grande rassegna monografica su Théodore Rousseau, «La voce della foresta», in corso al Petit Palais di Parigi?
Purtroppo no, probabilmente perché il nostro è un museo «giovane» ed è naturale che molti studiosi non ne siano ancora a conoscenza. Molte opere delle quali fino a due anni fa si ignorava del tutto l’ubicazione sono qui da noi, a Pescara! Un esempio risale all’inverno 2022 quando il Musée d’Orsay ha dedicato una mostra a Rosa Bonheur, pittrice rappresentata nella nostra collezione da «L’attelage» e «Les muletiers». Di quest’ultima, il museo francese aveva esposto un’incisione d’après, conservata presso la National Gallery di Londra, indicando nella didascalia «ubicazione dell’originale ignota». Ora sono frequenti le richieste di prestito che ci arrivano da ogni parte del mondo, ma le accordiamo solo a progetti ben strutturati e in sedi di prestigio che le possano valorizzare come meritano.
C’è un’opera dalla quale non potreste mai separarvi?
Davvero impossibile scegliere. Sembrerà retorico, ma è così: sono tutte come figli. Li abbiamo accuditi a lungo in casa, e anche ora che hanno la loro autonomia nel museo non riusciremmo mai a lasciarli andare! Se invece ci chiede qual è l’opera a cui siamo più legati, per quanto anche qui la scelta sia complicatissima, diremmo «Verità» di Antonio Mancini, un capolavoro che emoziona ogni volta che lo si ha davanti.
Pensate che l’arte possa rendere migliore la vita delle persone?
L’arte ha dato un senso speciale alla nostra vita: non solo la migliora, ma la eleva. Come si fa a vivere senza?