Il quotidiano si tinge di sacro

On 05 November 2018

di Fernando Mazzocca, da Artedossier, novembre 2018

 

Risulta che Amedeo Modigliani, durante una vivace discussione con Anselmo Bucci svoltasi subito dopo il suo arrivo a Parigi, abbia esclamato che in «Italia non c’ è nulla, sono stato dappertutto. Non c’è pittura che valga. Sono stato a Venezia, negli studi. In Italia c’è Ghiglia. C’è Oscar Ghiglia e basta». Questa ferma convinzione, che veniva da lontano, dal giovanile sodalizio negli anni della loro formazione livornese all’ombra del genio tutelare di Fattori, legittima la presenza di due ritratti di Modigliani a chiusura della eccezionale mostra di Viareggio. Davvero singolare per il numero e la qualità delle opere esposte, ma soprattutto perché riesce finalmente a chiarire, in tutte le sue sfumature, il complesso percorso di un solitario protagonista negli anni fatidici che hanno preceduto e seguito la prima guerra mondiale. Rispetto alle rassegne che sono state dedicate a Ghiglia (Livorno 1876 - Firenze 1945) nel 1996 a Prato e Livorno e nel 2008 a Castiglioncello, la differenza sta non soltanto nella strepitosa raccolta di capolavori emersi in questa occasione, ma anche nell’approfondimento degli studi da parte di Elisabetta Matteucci, cui si deve anche il progetto della mostra, e di Vincenzo Farinella.

La molta documentazione emersa, inediti confronti e nuove ipotesi critiche aiutano a chiarire l’unicità di questo geniale autodidatta, interprete di una modernità fondata sulla tradizione, quindi antesignano, quandoancora infuriavano le avanguardie e dominava l’iconoclastia futurista, non solo di quello che nel dopoguerra risuonerà come “il ritorno all’ordine”, ma addirittura di quel realismo magico che avrà negli anni Trenta i suoi protagonisti in Casorati, Funi, Oppi, Cagnaccio, Donghi, quando, per usare le parole del suo ispiratore e teorico, il romanziere Massimo Bontempelli, il segreto della nuova pittura sta nella «precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta».

Gli intensissimi ritratti, le figure sorprese e fermate nelle loro pose quotidiane, le silenziose nature morte costituiscono il repertorio circoscritto ed esclusivo di Ghiglia, di questo insuperabile interprete della magia di una realtà feriale riscattata nella sua suprema essenzialità. Forse è la grande eredità di Fattori che dovette spingerlo sin dall’inizio, quasi per istinto, in questa direzione, ma poi sono stati una serie di incontri decisivi a cambiargli la vita, imprimendo una svolta alla sua formazione e alla sua carriera. Prima di tutto quello avvenuto nel 1907 con il grande giornalista, critico d’arte e divulgatore Ugo Ojetti. È stato lui a cogliere per primo la genialità dei suoi capolavori giovanili e a fargli conoscere gli incanti dell’impressionismo francese, quali si ritrovano in uno dei dipinti più straordinari di quegli anni, La signora Ojetti nel roseto, dove rispetto ai tanti aggiornamenti banali riesce a offrire una sua personalissima reinterpretazione di quel movimento che aveva cambiato il modo di interpretare e rappresentare la realtà.

Ancora Ojetti appare l’interlocutore privilegiato di un’altra avventura artistica e di un incontro che spiega meglio di altri la magia unica della sua pittura successiva. Siamo nel marzo del 1908, quando dopo una visita ad Arezzo, gli comunica l’emozione provata entrando nel coro della chiesa di San Francesco: «Gli affreschi di Piero della Francesca mi hanno profondamente commosso, questo non potrebbe forse bastare in questi tempi come promessa di quello che potrò io fare? Con grande dolore debbo dire che non ho ancora nulla compiuto, però studio sempre con intensità e traggo profitto da questo e vedo vicino la realtà del mio ideale d’arte». In netto anticipo rispetto alla riscoperta di Roberto Longhi che, affidata al saggio del 1914 e alla celebre monografia del 1927, avrà una decisiva influenza sugli artisti del Novecento italiano, Ghiglia recuperava Piero alla modernità, con una originalità che rimarrà unica. Proprio per la capacità di saper coniugare la “sintesi prospettica di forma e colore” pierfrancescana non solo con la propria formazione macchiaiola, ma anche con le geometrie di Cézanne, e addirittura la dimessa poesia di Chardin. Questo si avverte oltre che nelle figure condensate in puri volumi colorati, soprattutto nelle straordinarie nature morte che, forse, non è esagerato considerare tra le più belle e intense di ogni tempo. In quegli anni una simile magia la ritroviamo soltanto in Casorati.

Un altro incontro,decisivo come quello con Ojetti, è avvenuto nel 1908 con il grande collezionista fiorentino Gustavo Sforni. Dopo averne visitato lo studio, Sforni era rimasto folgorato dall’originalità delle opere create da Ghiglia negli anni precedenti il loro incontro, tanto da acquistare nel giro di pochi mesi quattro dipinti destinati dunque a entrare in una raccolta leggendaria, accanto ai capolavori di Cézanne e Medardo Rosso. È stato probabilmente per lui che Ghiglia ha creato il suo quadro più straordinario, quella Donna che si pettina diventata nota con il titolo di La camicia bianca, a sottolineare il motivo plastico e cromatico dominante di un’immagine che ci può apparire come una semplice istantanea, ma che, come ora rivela la sua identificazione da parte di Farinella, deriva in realtà da due fonti illustri e sorprendenti, anche per la loro contaminazione, come La sposa di Aminadab dipinta da Michelangelo nella volta della Sistina e Pettinando i capelli, una celebre stampa di Utamaro dalla serie Dieci studi di dipinti femminili. Quindi grazie a questi riferimenti, perfettamente assimilati e rivissuti, l’immagine di un banale gesto quotidiano veniva proiettata in una dimensione sacrale. Del resto in tutta la pittura di Ghiglia spira questa religione del reale conseguita attraverso un linguaggio particolarissimo, fuori della velocità e del rumore delle avanguardie. Le sue figure, i suoi oggetti vivono in uno spazio senza tempo dove la tradizione e la modernità s’incontrano. Questa era stata anche la dimensione dei macchiaioli, quando si erano voluti confrontare con la pittura del Tre e Quattrocento toscano, e soprattutto di Fattori cui Ghiglia ha dedicato nel 1913 una fondamentale monografia.

Ancora una volta, in anticipo su quello che sarà il grande recupero del grande maestro livornese da parte del movimento di Valori plastici, Ghiglia indicava in lui un esempio, una sorta di baluardo da contrapporre alla deriva futurista a difesa di una tradizione toscana proiettata verso una diversamodernità, che da Masaccio arrivava a Cézanne e dal Beato Angelico appunto a Fattori. Ma ogni volta la sua disponibilità non cessa di sorprenderci, come quando a ridosso della celebrazione italiana di Modigliani, avvenuta alla Biennale del 1922, sarà capace di entrare indialogo con i suoi misteriosi nudi, da cui ha preso ispirazione per i propri. 

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