Ho scritto più volte in queste pagine proposizioni che riassumo:
A: gli Archivi e le Fondazioni , che pullulano nel campo dell’arte contemporanea, non hanno l’esclusiva ad avanzare attribuzioni per gli autori di rispettiva competenza e, quando le esprimono, i loro ngiudizi non sfuggono, come ogni altra operazione umana priva di salde basi scientifiche, alla opinabilità;
B: consegue da questo che il privato proprietario di un’opera , la cui autografia è contestata da un Archivio o Fondazione, non sia portatore di un interesse tutelabile da parte dell’autorità giudiziaria, nel senso che non possa agire perché questa riconosca l’infondatezza dell’opinione espressa.
In altri termini, se Tizio esprime un’opinione, il dissenziente non può evocarlo in giudizio per farne accertare l’infondatezza, anche se dalla stessa derivi per lui un serio pregiudizio economico: è notorio, infatti, che non trovi acquirente un’opera la cui autografia non sia stata riconosciuta dall’Archivio o Fondazione preposti a tutelare ufficialmente il Maestro al quale l’opera stessa viene riferita. L’evidenza della proposizione che precede è incontestabile e lascia pertanto perplessi la pronunzia della corte di Appello di Milano (11 dicembre 2002, Giulio Einaudi editore in amministrazione straordinaria contro Archivio Opera Piero Manzoni, n “Il Diritto d’Autore”, n.6/2003, pp.577 e seguenti) che hanno dichiarato illegittimo il comportamento della Fondazione Manzoni per il rifiuto nel riconoscere l’autografia di un’opera riferita al maestro tutelato. Su questo problema ho avuto mesi or sono un’interessantissima discussione con una giovane e valente studiosa di diritto privato. Dal confronto è emersa questa constatazione: l’opinione è in sé insindacabile a meno che non abbia ecceduto i limiti di ragionevolezza. In tal caso, sarebbe possibile adire il giudice per far dichiarare infondata un’opinione irragionevole, che costituirebbe sicura manifestazione quantomeno di colpa grave (l’ipotesi del dolo, teoricamente possibile, è molto difficilmente argomentabile in concreto).
Ho dunque attentamente meditato sull’opinione della collega privatista, cercando di verificare se vi fosse in essa un nucleo di verità. Il presente articolo costituisce il risultato di tale ricerca e vado a esporre le mie riflessioni al riguardo.
Partiamo, come sempre dovrebbe farsi, dal nostro diritto costituzionale, visto che in esso tutto l’ordinamento giuridico ha, come affermava due secoli or sono il grande Pellegrino Rossi (1787-1848), “ses tête de chapitre”. Nella Costituzione vi è una norma fondamentalissima , l’articolo 3, che informa tutta la Magna Charta ed esprime un principio allargato di eguaglianza, per il quale, sul piano legislativo, non solo situazioni simili impongono identità di soluzioni, ma anche situazioni dissimili non tollerano soluzioni identiche. Nello scrutinare in concreto quando il principio di eguaglianza risulti violato dal legislatore, la corte Costituzionale, in innumerevoli occasioni, ha fatto ricorso al criterio di ragionevolezza: le scelte del legislatore non sono sindacabili, ma la sua discrezionalità vien meno quando egli violi il principio di ragionevolezza.
Questo significa che l’arbitrio del legislatore nel cercare equilibri fra interessi contrapposti non può sfociare in scelte irragionevoli. Applicando un tale criterio all’attribuzione delle opere d’arte, gli Archivi e Fondazioni sono liberi nel valutare un’opera loro sottoposta al fine di verificarne l’autografia ma non possono fondare il loro giudizio su criteri e parametri manifestatamente irragionevoli.Del resto, già le fonti distinguevano tra un “arbitrium merum”e un “ arbitrium boni viri” e a esso si riferisce anche l’articolo 1.346 Codice Civile quando, prevedendo la possibilità che un terzo arbitratore determini parzialmente l’oggetto del contratto, impone a tale attività dei solidi parametri di riferimento. Se quanto abbiamo esposto viene condiviso, consegue che un elemento di giudizio estremamente importante, anche sul piano economico, quale la determinazione se accettare o meno l’autografia di un’opera, richieda un particolare impegno degli “archivia tori”, tenuti in conseguenza da un lato, a motivare il loro dissenso, dall’altro, a fondare tale motivazione su parametri oggettivi e non sul loro mero arbitrio. Questo anche in funzione del rapporto contrattuale che si viene a istituire tra chi chiede l’archiviazione e chi la esegue, rapporto da assimilare al mandato (articolo 1703 e seguenti del Codice Civile), con il conseguente obbligo di diligenza in capo all’archiviatore-mandatario (articolo 1710). Pertanto, non si potrà affermare che un’opera sia recente quando il telaio o la tela, esaminati scientificamente, evidenzino una ragguardevole età, che avvicini l’opera a momenti storici nei quali non si pensava neppure a falsificare l’autore, a quella data non particolarmente apprezzato. Non si potrà dire che l’opera sia stata rintelata, quando il rintelo è manifestatamente da escludere. E così via: sarebbe troppo arduo elencare tutti i casi nei quali dall’opinione legittimamente dissenziente si passi al dissenzo irragionevole e dunque inaccettabile e illegittimo. Certamente, i confini tra le due categorie non sono netti e la prudenza del giudice assume, in questa operazione ermeneutica, una valenza fondamentale.
Concludendo pertanto ritengo che un’azione contro Archivi e Fondazioni possa essere esperita quando il dissenso di questi assuma il carattere dell’irragionevolezza. L’arbitrio di Archivi e Fondazioni è, in altri termini, non un “arbitrium merum”, ma un “arbitrium boni viri” e quindi il rifiuto può essre espresso solo attraverso argomentazioni in se stesse non irragionevoli o in conferenti.
Queste le mie conclusioni: ovviamente, opinabili.