L'impegno della Fondazione Cassa de' Risparmi di Forlì, i vasti spazi del San Domenico e nuovi decisivi approfondimenti su questo grande protagonista della scena artistica internazionale tra i due secoli, passato dalla Firenze dei Macchiaioli alla Parigi degli Impressionisti, hanno consentito di realizzare la rassegna più completa ed articolata su Boldini, almeno dalla grande mostra del 1963 presso il Musée Jacquemart-André, quando il suo più fedele interprete Jean Louis Vaudoyer riproponeva all'attenzione del pubblico e della critica un artista che a partire dalla prima guerra mondiale era stato archiviato con la fine dell'epoca e del mondo, quelli della Belle Epoque, di cui era stato l'inarrivabile interprete. Quando era scomparso, vecchissimo, nel 1931 era come se, artisticamente, forse morto ormai da un pezzo, almeno da una decina d'anni, dato che il progressivo aggravarsi dei problemi alla vista e la sordità avevano un drastico calo di una attività pittorica, caratterizzata nel mezzo secolo precedente da una produzione vorticosa e quasi sempre all'altezza del suo genio versatile.
Anche se si trattava di una genialità che, considerata sempre ai limiti di un troppo esibito virtuosismo, aveva determinato tanto il successo presso i collezionisti ed il pubblico,quanto la diffidenza da parte di una critica non sempre disposta a perdonarne gli eccessi e a riconoscergli le qualità dell'artista vero. Era stato il caso di un esponente delle Avanguardie come Ardengo Soffici che nel 1909, anno di nascita del Futurismo, lo aveva un po' massacrato, concludendo che "non è nè un creatore, nè un poeta, si può persino dubitare che sia un pittore". Se mai era stato solo uno straordinario testimone del suo tempo, ma soprattutto "un commentatore malevolo". Soffici aggiungeva una strana, ma non del strampalata, teoria. Nei suoi celebri ritratti, dove la critica precedente aveva semplicemente parlato di uno spirito irriverente o caricaturale, egli intravedeva un atteggiamento di rivalsa, per cui il "figlio di contadini" avrebbe spresso una sorta di odio di classe verso la "gente del bel mondo", "questi nemici tradizionali della sua razza", rappresentandoli "con occhi ostili, freddissimi" e cercando di "scoprirne, soprattutto, le tare fisiche e morali".
Ma ad un altro fiancheggiatore delle stesse Avanguardie, addirittura la musa di Picasso Gertrude Stein - nei tempi in cui il suo idolo creava le Demoiselles d'Avignon che rappresentano quanto di più lontano dalle lenguide femmes-fleures boldiniane - la sua pittura apparì sotto tutt'altri termini, tanto da impegnarla in una dichiarazione assolutamente lusinghiera nei suoi confronti: "Tutta la nuova scuola è nata da lui perchè egli per primo ha semplificato la linea e i piani. Quando i tempi avranno situato i valori al posto giusto, Boldini sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso". Questo risarcimento in qualche misura c'è stato ed ha avuto tra i suoi portavoce uno dei maggiori storici dell'arte del secolo scorso, Carlo Ludovico Ragghianti. Rimasto folgorato dalla grande mostra parigina del 1963, si era ravveduto superando i propri precedenti pregidizi che lo avevano portato a considerazioni simili a quelle di Soffici. Ora, misurandosi finalmente con la bellezza di opere prima mai viste, aveva potuto scoprire nell'artista che sino allora gli era parso troppo condizionato, se non schiacciato, dal gusto - e per certi versi il "cattivo" gusto - dell'epoca, un interprete raffinato, moderno e consapevole. Dopo essersi confrontato con i protagonisti del ritratto mondano, come Stevens, Sargent, Whistler e Zorn, egli si sarebbe infine concentrato su Manet, viatico per meditare Velàzquez e Goya, soprattutto Frans Hals. Evidente è anche il confronto con Van Dyck che, per la prima volta, gli è accostato, attenti come Diego Martelli che lo vide all'opera e gli perdonò il tradimento degli ideali macchiaioli, quando da Firenze si era trasferito nel 1871 a Parigi per seguire la sirena di Goupil, il mercante che lo aveva reso subito ricco. Per rendere la facilità e la destrezza con cui realizzò nel corso degli anni settanta i piccoli quadri di scenette mondane, contemporanee o in costume, che gli venivano ordinati, notò divertito che "Boldini piscia quadri ridendo come un giocatore di bussolotti fa sparire le palline di sotto i bussolotti". Mentre i suoi dipinti apparivano del tutto particolari con "delle parti eseguite con minuzia incredibile", alternate a "delle pari capricciosamente lasciate, senza che questa minuzia o questo lascito abbiano nè punto, nè poco, la fisionomia del ciarlatanismo, o di colui che vuole darla da bere agli ignoranti della folla dorata".
Come dimostrano bene le sezioni della mostra, Boldini è stato un artista estremamente versatile, non solo per la diversità dei mezzi impiegati - si è cimentato anche nella decorazione murale dipingendo con grandi paesaggi toscani un ambiente dekka Villa La Falconiera presso Pistoia di cui per la prima volta vengono esposti alcuni pannelli - , ma anche per i generi che ha praticato. Ogni volta ci appare un pittore diverso. Prima quando inventa una nuova formula di ritratto, apprezzata molto da Signorini, con le incantevoli tavolette dove i personaggi sono ripresi non su uno sfondo neutro ma all'interno di ambienti affollati di oggetti. Siamo nella seconda metà degli anni sessanta, accolto a Firenze come uno di loro dai Macchiaioli, da lui ritrattati con grande trasporto. Passato a Parigi mostrò tutto il suo estro non solo nei quadretti di genere sopra ricordati, eseguiti per assecondare soprattutto i nuovi ricchi americani clienti di Goupil, ma anche nel paesaggio, lasciandoci bellissime vedute della campagna francese, reso con un'attenzione analitica tutta il contrario della sintesi impressionista, e nelle indimenticabili immagini di Parigi, soprattutto nelle scene di vita moderna catturate lungo le strade affollate, davanti e dentro ai caffè o nei mitici locali, come quando si ritrasse verso il 1889 all'interno del Moulin -Rouge nel dipinto, come altri anche di Degas, giunto a forlì dal Musèe d'Orsay. Ma la parte più consistente della rassegna è dominata - come era inevitabile- dai grandi ritratti feminili dove ha reso immortali quelle che chiamava le "divine". Si tratta, come ricorderà negli anni cinquanta del Novecento Berenson che aveva avuto l'occasione di incontrarlo a Parigi all'inizio del secolo, delle "lungiformi signore dell'alta società internazionale, che, nelle sue tele, appaiono dipinte come sotto a un vetro traslucente".